RINASCITA DEL FEMMINILE E VIOLENZA CONTRO LE DONNE

 

 

 

 

 

 

 

 

Scritto da: Annalisa Barbier

 

Si ripetono tristemente i casi di cronaca in cui una donna viene ferita, bruciata, violata ed uccisa dal compagno o dall’ex compagno.

A quanto pare si tratta di un fenomeno che richiede estrema attenzione da parte dell’opinione pubblica e soprattutto delle istituzioni le quali ancora oggi, nonostante gli sforzi legislativi e organizzativi, non sono in grado di garantire la sicurezza di molte donne che vivono situazioni limite, in cui il rischio di perdere la vita per mano dell’uomo che hanno amato è tristemente molto concreto.

La prima reazione di fronte a queste storie di violenza e sopraffazione è di rabbia, subito seguita da una sensazione di impotenza e di paura perché spesso, la mano che picchia ed uccide, è la stessa che in passato ha abbracciato e accarezzato.

Si tratta di un fenomeno diffuso, basato sulla condizione di sottomissione cui la donna è stata soggetta per secoli in moltissime culture e dalla quale sta faticosamente, disordinatamente, tentando di liberarsi.

La Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne è stata adottata senza voto da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993; in essa si riconosce la "necessità urgente per l'applicazione universale alle donne dei diritti e dei principi in materia di uguaglianza, la sicurezza, la libertà, l'integrità e la dignità di tutti gli esseri umani".

Gli articoli 1 e 2 della suddetta risoluzione definiscono la violenza contro le donne come segue:

  • Articolo 1: Ai fini della presente Dichiarazione l'espressione "violenza contro le donne" significa ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata.
  • Articolo 2: La violenza contro le donne dovrà comprendere, ma non limitarsi a, quanto segue: a) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, l'abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento; b) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all'interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l'abuso sessuale, la molestia sessuale e l'intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la prostituzione forzata; c) La violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o condotta dallo Stato, ovunque essa accada.

In precedenza, la violenza contro le donne veniva considerata un fatto “privato”, che aveva luogo all’interno di dinamiche familiari cristallizzate attorno al ruolo dominante dell’uomo.  Oggi finalmente si comincia a considerare la violenza contro le donne una questione sociale aperta, che riguarda tutti e non solo le famiglie – o le relazioni -  all’interno delle quali ha luogo.

Passi avanti ne sono stati fatti molti; eppure, a quanto pare – nell’immaginario individuale di molti uomini  -  la donna viene ancora considerata come un oggetto di proprietà, da possedere a tutti i costi, cui viene negata qualsiasi libertà di scelta ed espressione autonoma della propria volontà al di fuori del legame sentimentale o familiare. Viene ancora da alcuni uomini volontariamente posta in una condizione di inferiorità  e sudditanza economica, psicologica, sociale.

I fattori sociali sono a mio avviso determinanti perché costituiscono l’ambiente all’interno del quale nascono, si sviluppano e prendono forma concreta quelle convinzioni e quelle assunzioni di base che portano un uomo a considerare “giusto”, fattibile e lecito usare violenza contro la propria compagna. In questo senso dobbiamo fare i conti con una cultura secolarmente patriarcale se non apertamente maschilista, basata sulla presunta superiorità dell’uomo e sul diritto di questo ad avere un ruolo di controllo e comando sia all’interno del contesto familiare che in quello più vasto che riguarda la vita sociale e professionale.

A partire dalla fine del XVIII secolo, grazie agli scritti “Rivendicazione dei diritti della donna” di M. Wollstonecraft e “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” di O. de Gouges, e successivamente attraverso il movimento femminista, sono stati fatti molti progressi nel riconoscimento della figura femminile, soprattutto a livello sociale e politico.

Tuttavia è come se, nell'immaginario maschile, fossero rimaste numerose zone d’ombra refrattarie a qualsiasi rielaborazione – cognitiva ma soprattutto emotiva – del ruolo femminile all’interno della relazione sentimentale e familiare, e all'interno del tessuto sociale.

È verosimilmente all'interno di queste zone oscure, sconosciute, antiche, legate ad una emotività non elaborata né riconosciuta, che avvengono i drammi emotivi che spingono certi uomini ad agire contro le loro compagne uccidendole, nel tentativo di ristabilire quell’equilibrio e quell’ordine perduti nella paura dell’abbandono, del rifiuto, della perdita delle sicurezze.

Il lavoro che spetta a questa nostra società e alle future, sarà a mio avviso un arduo lavoro di ri-costruzione e rielaborazione dei ruoli sociali e relazionali, in cui deve essere promosso l’accoglimento e la comprensione profonda di uno sganciamento dai precedenti ruoli rigidamente definiti di maschio/femmina che, se da una parte hanno garantito le necessarie certezze di identificazione e differenziazione, dall’altro hanno chiuso gli individui in definizioni statiche via via più strette e sempre meno adeguate a garantire la libera espressione delle potenzialità individuali umane.

Come spesso accade, ciò che inizialmente rappresentava una protezione si è andata trasformando nel tempo un una gabbia, all’interno della quale rischiamo di restare rinchiusi nostro malgrado.

Educare i bambini e i giovanissimi al rispetto delle diversità e alla considerazione di queste come risorse e non come motivi di discriminazione, dovrebbe essere il primo passo per formare e crescere individui integri e capaci di un’affettività sana.

Capaci di relazionarsi con l’altro con rispetto e amore, in una modalità di reciproca considerazione e crescita, e non considerando l’altro come mero strumento di immediata gratificazione delle proprie necessità narcisistiche, o peggio come strumento cui viene attribuito il DOVERE di riempire quel profondo abisso e vuoto interiore che nascono da una ferita narcisistica mai elaborata né superata.

E’ evidente che viviamo in un contesto socioculturale che promuove la ricerca costante del piacere, la perfezione come manifestazione di potere, l’evitamento di ogni forma di dolore e frustrazione, la competizione senza limiti come elementi rappresentativi di un’immagine di successo e felicità. Ma si tratta evidentemente di una grande illusione, che ci sta portando lentamente ad una deriva del sé e delle relazioni la cui gravità è sotto gli occhi di tutti.

Tutto questo si assomma alla trasmissione – diretta e indiretta - di un individualismo sfrenato che afferma la supremazia del desiderio ed il susseguente assoluto diritto che esso venga soddisfatto subito e a tutti i costi.

Considerando questi presupposti, non dobbiamo sorprenderci se l’incapacità di accettare una quota di dolore, di dipendenza dall’altro, di delusione e frustrazione portano gli individui meno evoluti e più fragili a commettere atti di brutale violenza contro un femminile che, oggi più che mai, fa paura.

 

Un femminile che è simbolo incarnato di vitalità, autonomia e autodeterminazione, forza interiore, nel suo rapporto da sempre favorito con il ritmo archetipico e profondo della natura, che muore e rinasce  - rinnovata -  dal buio della terra.

 

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