La dipendenza da siti di incontri nella società della prestazione

Immagine creata da IA
Immagine creata da IA

 Scritto da: Annalisa Barbier, PhD

 

Viviamo in una società che ci chiede costantemente di migliorarci e di mostrarci. Una società dell’esposizione, della visibilità, della seduzione permanente, dello sfruttamento di sé come oggetto e soggetto di competizione costante e onnipervasiva. Ma dietro tutto questo si cela spesso un sentimento scomodo: l’angoscia. E non quella che ci arriva da fuori, quella che nasce come risposta naturale alle minacce esterne e ai pericoli – ma un’angoscia interna, radicale, silenziosa, fatta di mancanza di senso, di sovraccarico di informazioni, aspettative e richieste, fatta di senso di vuoto.

La seduzione come prestazione

I siti di incontri online sono diventati la nuova piazza digitale dove cercare “amore”, compagnia, sesso o spesso solo una conferma del proprio valore, incapaci di sentirlo altrimenti. Ogni profilo diventa una piccola vetrina esistenziale: una foto curata, una bio accattivante, un tocco di originalità e la velocità con cui diciamo “questo sì” e “questo no”. Così, ciò che dovrebbe facilitare l’incontro autentico, spesso finisce per trasformarsi in una spirale di dipendenza dall’eccitazione dell’esplorazione e dell’attesa, delusione e rinvio all’invisibilità. Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, viviamo nella “società della trasparenza” e della “prestazione”: non siamo più oppressi da divieti esterni, ma da una continua auto-esibizione e auto-sfruttamento. In questa cornice l’altro non è più un mistero da incontrare, da esplorare o da cui lasciarsi attraversare ma è diventato solo un’immagine da valutare, criticare o desiderare. Le relazioni diventano scambi velocissimi e l’attrazione una funzione governata da algoritmi.

Al di là della dipendenza dai siti di incontri si apre una frattura profonda: la crisi dell’Eros e il dissolvimento del desiderio in quanto forza vitale e relazionale autentica. Byung-Chul Han, filosofo di questi tempi, afferma che la società contemporanea ha espulso l’Eros e con esso ha espulso l’altro come portatore di complessità e come sfida costruttiva, rimpiazzandolo con una seduttività e una sessualità performanti, che usano la comunicazione rapida e diretta come strumenti di ricerca di soddisfacimento e riconoscimento. L’Eros, nella sua radice antica, non è la semplice attrazione erotica e fisica: rappresenta una spinta, una tensione verso l’altro, l’apertura al non-conosciuto e si esprime attraverso il desiderio che emerge dalla mancanza, ci apre ad una dimensione in grado di dare spazio alla creatività. È uno spazio intermedio e non programmabile, dove l’altro non è un oggetto da ottenere o dal quale aspettarsi qualcosa, ma rappresenta un enigma da incontrare e  conoscere e  - perchè no - dal quale lasciarsi trasformare. In questo spazio potrebbero fiorire coraggio, curiosità di esplorare e conoscere, interesse aperto al confronto e al cambiamento. 

Ma cosa accade quando l’altro viene ridotto ad un profilo, ad una immagine statica da scorrere con un dito in un variopinto scaffale digitale, in cui scegliere il “prodotto” più giusto? Accade che il desiderio non riesce a sentire più se stesso e  si trasforma in quantificazione: quante persone mi hanno messo like, quanti match ho ottenuto oggi, quanto valgo nella vetrina digitale? Il soggetto non desidera più l’altro: desidera solo essere desiderato… e così l’Eros si spegne, lasciando il posto a un narcisismo relazionale compulsivo in cui vi è davvero poco spazio per ritrovare il senso profondo del termine “connessione”, sia essa con l’altro-da-sé che con il nostro stesso Sé.

È qui che emerge, silenziosa e tagliente, l’angoscia dell’Io. Han la descrive come l’esperienza tipica del soggetto postmoderno, non più schiacciato da divieti repressivi, ma logorato dal dover fare qualcosa di “performante” di questo eccesso di libertà e di esposizione. Non c’è più un Altro simbolico che ci definisca, un contesto che sia in grado di donare confini e riferimenti (la comunità, il padre, il limite), ma un infinito gioco di specchi in cui siamo noi a doverci definire e ri-definire costantemente, a doverci mostrare sempre all’altezza. Non c’è più il proibito: c’è solo l’imperativo alla visibilità e alla performance, al miglioramento di sé. Un paragone impietoso e incessante con tutti e con tutto.

Nel contesto delle app di dating, questa angoscia prende la forma di un bisogno incessante di approvazione: “esisto solo se piaccio, se vengo scelto, se qualcuno mi sceglie”. In questa dinamica, perdiamo progressivamente contatto con il nostro sentire autentico e non cerchiamo più l’incontro - che è per sua natura trasformativo e sovversivo dello stato precedente  - , ma solo la conferma del nostro valore e della nostra identità. Così l’altro – che dovrebbe sorprenderci, destabilizzarci, condurci oltre noi stessi – viene ridotto a semplice specchio del nostro bisogno di esistere, di riconoscere e sentire noi stessi come entità uniche e sacre. E più cerchiamo di placare questa angoscia attraverso il consumo relazionale, più ne diventiamo prigionieri. Perché l’Io non si pacifica nella conferma continua - dalla quale piuttosto rischia di divenire dipendente - ma nel silenzio, nella relazione vera che resiste al bisogno impulsivo, nella presenza che non richiede prestazione. Potrei dire nell’essere, prima ancora che nel fare.

Come terapeuta e insegnante di mindfulness, vedo ogni giorno quanto la vera cura passi proprio da qui: dal riscoprire il valore dell’invisibilità, dell’assenza, della mancanza, del riposo e del “vuoto” come spazio fertile. Passa dall’imparare a restare con la frustrazione in quanto spinta creativa rinunciando a colmarla immediatamente, passa dall’imparare a stare nel desiderare senza subito possedere e dunque consumare perchè, se non impariamo a fare così, siamo come un secchio bucato: nulla riesce ad appagarci davvero.

E proprio perchè così bisognosi di ricevere continuamente rassicurazioni, sostanza e profondità attraverso l’altro, l’altro diventa inevitabilmente anche il “nemico” perchè può ferirci, deluderci, smettere di rimandarci ciò che desideriamo. Così l’altro viene oggettificato e vissuto con alternanti bisogno/dipendenza e diffidenza: lo allontaniamo prima ancora di avvicinarci, lo critichiamo, giudichiamo, o pretendiamo il suo sguardo incantato fisso su di noi, continuo ed incessante. Ma in questa dinamica l’altro non c’è mai veramente e rimane mero oggetto di proiezione. Riscoprire l’Eros significa allora abitare il vuoto senza fuggirlo (LEGGI QUI…), ascoltare il proprio desiderio o bisogno senza trasformarlo in compulsione, sostenere la fragilità dell’incontro senza barricarci dietro la distanza dello schermo. Solo così l’altro può tornare ad essere davvero altro, e non solo un riflesso del nostro bisogno di essere amati.

Angoscia e amore liquido: due facce della stessa medaglia

Nel pensiero di Byung-Chul Han, l’angoscia dell’Io nasce dall’eccessiva esposizione, dalla pressione costante a essere visibili, desiderabili, performanti. Non c’è più un ordine simbolico o valoriale cui riferirsi, né un limite esterno a contenere il soggetto: siamo noi stessi, oggi, a doverci costruire e vendere in continuazione: “imprenditori di noi stessi”.  E così, scrive l’autore, «l’altro diventa un’interfaccia», non un luogo dell’incontro ma teatro della prestazione e strumento di soddisfacimento di bisogni insoddisfatti. Questo stato di fragilità identitaria trova il suo corrispettivo relazionale in ciò che Zygmunt Bauman definisce amore liquido: una forma di relazione in cui i legami affettivi seguono la logica consumistica dell’ “usa e getta”. Si tratta necessariamente di legami fragili, temporanei, reversibili, fondati più sull’uso che sulla cura e il reciproco senso di appartenenza, più sul consumo che sull’accoglienza e sulla co-costruzione. L’angoscia dell’Io e la liquidità dell’amore vanno di pari passo e si tengono insieme: un soggetto dal fragile e insicuro senso identitario, non riesce a sostenere la densità e la sfida dell’intimità, la sfida del vero incontro con l’altro (che spaventa e impegna), dunque predilige rapporti flessibili, rapidi, facilmente interrompibili e sostituibili. Rapporti basati su questi presupposto di funzionamento, lasciano inevitabilmente il senso di vuoto non solo insoddisfatto, ma spesso più vasto, profondo e doloroso. Un senso si vuoto che spingerà a nuovi incontri, nuovi legami usa e getta, nuove e inevitabili frustrazioni. Una ripetizione dell’uguale che cambia solamente in superficie. Una narrativa Relazionale che propone non più la creatività come atto in cui si può dare vita al nuovo e diverso, quanto piuttosto come riproponimento dell’uguale sotto altre forme.

Bauman osserva che nelle relazioni postmoderne domina la logica del “connubio senza legame”: ci si connette facilmente, ma si evita ogni forma di profondità relazionale che potrebbe compromettere la propria libertà. Le app di dating incarnano perfettamente questo modello: permettono di entrare e uscire da mille micro-relazioni senza mai esporsi davvero, nè mai raggiungere l’incontro. Senza mai poterne o doverne costruire davvero neanche una.  In questo senso, l’angoscia non è solo individuale, ma strutturale: nasce da un mondo in cui i legami sono vissuti come minaccia, la durata come oppressione e limitazione Delle proprie libertà e l’altro come elemento opzionale da valutare, ottimizzare-sfruttare o scartare per cerare di meglio. 

L’Io liquido, intrappolato tra un bisogno disperato di conferma e un’altrettanto radicale paura dell’intimità, si rifugia così nella superficie dello schermo e delle relazioni. Anche delle relazioni con se stessi. Ogni swipe è una scelta momentanea, che non esclude altre possibilità. Ogni match è una promessa che non regge all’urto della realtà ed ogni silenzio diventa vertigine e ricaduta nel vuoto. Per Han, la cura comincia dal sottrarsi a questa trasparenza coercitiva, dal riscoprire la profondità, il mistero, il limite. Per Bauman, invece, serve ripensare l’impegno non come prigione, ma come scelta consapevole di costruire qualcosa che possa resistere nel tempo, e rappresentarci davvero proprio perchè fortemente voluto, al di là del limite e del difetto.

E forse, oggi più che mai, curare la dipendenza dalle relazioni liquide e digitali significa aiutare le persone a tollerare il vuoto, sostare nel desiderio che nasce dalla mancanza, dunque imparare a conoscere e amare anche quella mancanza per poter scendere sotto la superficie ed agire un atto che possa essere davvero atto di guarigione. Ritrovare, lentamente, un modo di amare che non sia consumo, ma dialogo tra opacità, individualità, complessità e alterità.

L’elogio della positività e l’auto-sfruttamento emotivo

Viviamo in una “società dell’eccesso di positività” in cui tutto e tutti deovono essere gradevoli, performanti, attraenti e, aggiungo io, felici e divertenti; in questa cornice, anche l’intimità diventa prestazione; così non possiamo più mostrarci vulnerabili, annoiati, incerti o sofferenti: dobbiamo sempre piacere ed ottenere approvazione, sempre performare ed essere sorridenti. Una società del genere ha ormai bandito il diritto alla tristezza, al dolore, alla mancanza e ai momenti di infelicità che sono preziosi se accolti ed esplorati, poiché i soli capaci di aprire una breccia sulla superficie delle cose. In questa dinamica le app di incontri, con i loro like e le notifiche, creano un circuito dopaminergico che ci spinge continuamente a cercare il nuovo, a migliorarci, a farci desiderare, a ottimizzare la nostra presenza digitale. Ma questo produce una sorta di “auto-sfruttamento” emotivo, in cui siamo noi stessi a spingerci all’estremo fino al burnout affettivo, cercando compulsivamente conferme per evitare di sentire il vuoto che altrimenti dovremmo guardare. Un vuoto che, ripeto, può ancora diventare fertile promessa e spazio di speranza. Tuttavia, meno siamo capaci di accogliere ed esplorare i nostri momenti difficili e più tendiamo a diventare dipendenti da tutto ciò che da essi ci tiene distanti: relazioni compulsive, sostanze, cibo, attività…la dipendenza facilmente nasce nel terreno dell’evitamento e della distrazione. Ma rappresenta davvero la soluzione al senso di vuoto che non vogliamo sentire?

Verso una relazione più umana

Come possiamo uscire da questa spirale? Forse, come suggerisce Han più che creare ed usare tecnologie dell’incontro sempre nuove, potremmo riscoprire l’etica del limite e del silenzio, imparando gradualmente a recuperare il senso ed il valore dell’assenza che produce desiderio, del tempo lento che permette riflessione e ascolto, della non-immediatezza che apre lo spazio alla libertà di scegliere la risposta con consapevolezza. E anche di quella solitudine che lungi dall’essere isolamento,  è relazione con se stessi: quella che potremmo definire “solitude” o beata solitudine. Questo potrebbe aiutarci a creare la premessa e lo spazio per l’incontro reale, un incontro in cui l’altro non è solo un like da ottenere, o qualcuno da cui aspettarsi qualcosa, ma un mistero da accogliere nella sua libertà, qualcuno cui e da cui lasciarci avvicinare gradualmente. La cura passa per una disconnessione consapevole, per una riscoperta della presenza, dell’ascolto e della sospensione della compulsività. Anche in terapia, possiamo ritrovare il senso del desiderio solo quando riusciamo ad interrompere la logica prestazionale per iniziare ad abitare il “vuoto” che percepiamo senza scappare. Questo vuoto non è uno spazio realmente vuoto, quanto piuttosto la percezione di qualcosa che non è come o dove dovrebbe essere nel nostro mondo interiore, o l’assenza della connessione con noi stessi. Nella relazione che abbiamo con noi stessi esso spesso è l’emergenza della nostra difficoltà ad entrare in contatto con ciò che realmente siamo, sentiamo di essere: con le emozioni difficili o con quegli aspetti che preferiremmo non conoscere né ammettere di possedere. Ma questi ci appartengono insieme ai pregi e alla gioia e possiamo sentirci completi solo se ci apriamo all’interezza dell’esperienza senza volerne forzatamente e faticosamente escludere gli aspetti scomodi. Una tale scissione è effimera e illusoria ma soprattutto dannosa.

In fondo, probabilmente è proprio nell’integrazione dell’impefezione, nella lentezza e nell’attesa consapevole che si nasconde la speranza e dunque la possibilità di sentirci vitali e davvero presenti nelle relazioni.

Leggi anche: IL SENSO DI VUOTO; IL “SOCIAL HANGOVER” COS’È’ E COME PREVENIRLO;  PRESENZA MENTALE E CONOSCENZA DI SÉ’; LA TOLLERANZA DELLA SOFFERENZA; SALDI AL SICURO E PRESENTI: RADICARSI NEI MOMENTI DIFFICILI

Scrivi commento

Commenti: 0