DISTURBI AFFETTIVI STAGIONALI: sono alterazioni del tono dell'umore e del comportamento che compaiono ai cambi di stagione, in particolar modo a partire dall'autunno. Ne sono colpiti oltre tre milioni di italiani, soprattutto donne fra i 20 e i 40 anni. All'origine di questi disturbi sono fattori legati al cambiamento dei cicli luce-buio, in particolare alla riduzione delle ore di luce, che influenza la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina e di ormoni quali la melatonina, alterando i normali ritmi biologici. Le caratteristiche del disturbo sono le seguenti:
- Corrispondenza tra la comparsa dei sintomi e particolari periodi dell’anno;
- Attenuazione o remissione completa del disturbo in periodi dell’anno altrettanto precisi;
- Cambiamento stagionale delle abitudini alimentari: aumento dell’appetito con forte desiderio di carboidrati, dolci, caffeina, e conseguente aumento di peso;
- Facile irritabilità, pigrizia, malinconia, difficoltà nei rapporti interpersonali e sul lavoro;
- Calo del desiderio sessuale;
- Insonnia o, al contrario, ipersonnia (tendenza/desiderio di dormire molte ore anche durante il giorno)
Scritto da: Annalisa Barbier
Tenere un diario giornaliero può essere davvero divertente, interessante e anche molto utile: può aiutarci a conoscerci meglio, a stabilire e portare avanti nuove e più sane abitudini mentali e fisiche, può indirizzarci verso nuovi obiettivi, aiutarci a fare chiarezza dentro di noi, o semplicemente a “guardare” cosa accade nella nostra mente giorno dopo giorno, come cambiamo, cosa ci rende grati e felici o cosa invece ci preoccupa di più, può far venire fuori la nostra parte creativa… E molto altro!
Per aiutarci a organizzare il diario giornaliero, ho trovato in rete molti suggerimenti pronti all’uso, sia che vogliamo scrivere il diario alla mattina sia che lo vogliamo scrivere alla fine della giornata. Possiamo usarli per guidare le nostre riflessioni o lasciare che nuove idee sorgano e fluiscano!
Ecco alcuni suggerimenti per il diario giornaliero:
RIFLESSIONI ALLA FINE DELLA GIORNATA
ASPIRAZIONI E VALORI
COSA FARESTI SE…?
LETTERE A …
RICORDI
E ora… buon lavoro!
Potete arricchire la lista dei suggerimenti o condividere le vostre esperienze di Journaling scrivendo nei commenti!
Fonti: jour.com, grammar.yourdictionary.com
Scritto da: Annalisa Barbier
Vi è mai capitato di accorgervi di ripetere, in determinate circostanze che hanno qualcosa di simile tra loro, comportamenti che non portano i risultati desiderati, o che persino hanno conseguenze spiacevoli? O di avere atteggiamenti e reazioni che vi portano a star male o a perpetrare una sofferenza che conoscete bene? Oppure vi siete accorti che certe persone o situazioni, evocano in voi sempre la stessa reazione?
Nei primi anni di vita, i bambini hanno bisogno di caregivers sufficientemente sicuri, prevedibili, amorevoli, sintonizzati ed accessibili. In un ambiente sicuro e accudente, il cervello dei bambini è in grado di svilupparsi in modo sano ed equilibrato, seguendo le normali fasi della crescita.
Il cervello infatti si sviluppa dal basso verso l’alto; le parti più “basse” del cervello (come il cervello rettiliano e mammaliano) sono quelle responsabili delle funzioni dedicate ad assicurare la sopravvivenza e a rispondere allo stress. Le parti più “alte “del cervello, come la neocorteccia, sono invece responsabili delle cosiddette “funzioni esecutive”, come ad esempio attribuire senso e significato a ciò che si sperimenta, o esercitare il giudizio critico e morale.
In altre parole, il cervello si sviluppa - anatomicamente e fisiologicamente – un po’ come una sorta di “scala”, con un processo di crescita che procede dal basso verso l’alto (bottom-up); quando le risposte allo stress (dovute a situazioni di grave trascuratezza o abuso) vengono ripetutamente attivate lungo un esteso periodo di tempo, nel neonato o nel bambino, il naturale processo di sviluppo sequenziale bottom-up del cervello viene compromesso. Le strutture cerebrali si sviluppano, ma vengono a mancare quei passaggi che sono fondamentali per l’equilibrato e completo accrescimento di tutte le strutture cerebrali, e molti aspetti evolutivi restano incompleti o alterati. Questo si ripercuote sul futuro sviluppo della personalità e sul benessere psicofisico del bambino.
Il trauma dello Sviluppo (Developmental Trauma-DT) o Reactive Attachment Disorder si può dunque manifestare in diverse forme, quali il Sensory Processing Disorder (non inserito nel DSM-5 come un disturbo separato), l’ADHD, il disturbo oppositivo provocatorio, il disturbo bipolare, i disturbi della personalità (soprattutto il disturbo borderline di personalità), il PTSD, disturbi cognitivi, ritardo nell’acquisizione del linguaggio, disturbi dell’apprendimento e altri.
ESPERIENZE PRECOCI AVVERSE E TRAUMA DELLO SVILUPPO
Il termine Trauma dello Sviluppo (ACE o Adverse Childhood Experiences) viene usato in letteratura per descrivere i traumi dell’infanzia, come ad esempio situazioni di abuso cronico, grave trascuratezza o altre avversità che hanno avuto luogo in casa. Quando un bambino è esposto ad uno stress sopraffacente e i suoi caregiver non sono in grado di aiutarlo a ridurre lo stress, o addirittura rappresentano la causa stessa di tale stress, il bambino sperimenta quello che viene definito un trauma dello sviluppo.
Molti clinici conoscono bene il termine PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), ma la maggior parte dei bambini traumatizzati non svilupperanno un PTSD, ma sono piuttosto a rischio di sviluppare un complesso disturbo caratterizzato da sintomi emotivi, cognitivi e fisici, che avrà ripercussioni sull’intera durata della loro vita.
Nella figura in basso sono indicate le tre grandi categorie di eventi avversi dell’infanzia.
Scritto da: Annalisa Barbier
Negli anni Cinquanta, Gli studi di John Bowlby sull’attaccamento condussero a risultati davvero molto interessanti.
Ad oggi, la teoria dell’attaccamento di Bowlby rappresenta la principale cornice teorica all’interno della quale comprendere il modo in cui si costruiscono e si mantengono le relazioni importanti della nostra vita, a partire dalle prime che sperimentiamo: quelle con le nostre principali figure di riferimento, solitamente i genitori o coloro che si prendono cura di noi.
È sulla base di queste iniziali relazioni di cura che si costruisce il nostro stile di attaccamento, che riassume il modo in cui viviamo noi stessi e gli altri importanti all’interno delle nostre relazioni significative.
Se i bisogni del bambino vengono soddisfatti dalle figure di accudimento, se il piccolo viene coccolato, sostenuto e consolato quando è bisognoso, impaurito o turbato, svilupperà la sensazione di potersi fidare ed affidare, ed imparerà ad avere fiducia nei genitori, a sentirsi amato, amabile e degno di amore. Svilupperà quello che viene definito un ATTACCAMENTO SICURO, caratterizzato da sentimenti di fiducia nel fatto che il mondo è un posto sicuro, che i suoi bisogni verranno soddisfatti e che è meritevole di amore.
Nel caso invece i suoi genitori abbiano avuto, nei suoi confronti, comportamenti imprevedibili e incostanti nel fornire accudimento, o siano stati più o meno freddi e respingenti, il piccolo svilupperà un legame di attaccamento definito ATTACCAMENTO INSICURO (ambivalente o evitante), caratterizzato dalla sensazione di non poter avere fiducia nei genitori affinché possano consolarlo, soddisfare i suoi bisogni, alleviare il suo disagio o la sua paura, sperimentando un’idea del mondo come di un luogo pericoloso e niente affatto sicuro, dei genitori come non affidabili e di se stesso come non amabile, o non meritevole. Questo atteggiamento limiterà la capacità del bambino di esplorare il mondo, di fidarsi e sentirsi al sicuro, nelle relazioni e nella vita.
Queste prime esperienze di fiducia/sfiducia influenzeranno la costruzione di quelli che Bowlby definisce Modelli Operativi Interni (MOI), ossia il modo in cui consideriamo noi stessi e gli altri all’interno delle relazioni interpersonali (il sé in relazione all’altro) e definiscono a grandi linee un “autoritratto” inconsapevole di chi siamo e di cosa possiamo aspettarci dagli altri e dalle relazioni interpersonali.
Un attaccamento sicuro in questo senso è una benedizione, poiché ci permetterà di vivere con fiducia, senso di sicurezza e dignità le relazioni adulte, sentendoci al sicuro e capaci di una reciprocità equilibrata e serena. Un attaccamento insicuro invece porta a vivere le relazioni interpersonali adulte con un inconsapevole ma costante sottofondo di sfiducia, timore, incertezza e paura che non permettono di costruire relazioni sane e gratificanti, poiché attivano reazioni automatiche e disfunzionali di allontanamento, aggressività, ricerca continua di conferme, che boicottano i rapporti. Creando circoli viziosi che perpetrano le paure da cui originano, e una sofferenza emotiva pervasiva.
Allarghiamo ora l’attenzione al concetto di self compassion, per comprendere in che modo la capacità di manifestare questa sana e naturale attitudine umana, sia correlata allo stile di attaccamento. La dottoressa Kristin Neff la definisce come l’insieme di tre componenti: gentilezza amorevole verso se stessi, la capacità di riconoscere la nostra comune condizione umana e la capacità di mantenere la nostra esperienza all’interno di una consapevolezza equilibrata.
La self compassion è la capacità di avere cura di se stessi, di essere gentili, accoglienti e amorevoli verso se stessi e soprattutto verso i propri difetti, le umane imperfezioni e verso gli errori ed i fallimenti che inevitabilmente fanno parte della nostra esperienza.
Ora mettiamo in relazione gli stili di attaccamento, in particolare i MOI, con la capacità di self compassion: la ricerca dimostra che le persone con attaccamento insicuro, e dunque modelli operativi interni caratterizzati da un’immagine di se come non amabile/non buono/non meritevole, mostrano una capacità di self compassion ridotta rispetto ai soggetti con attaccamento sicuro.
In pratica, sembra esistere una correlazione tra stile di attaccamento sicuro e capacità di self compassion e viceversa, tra attaccamento insicuro e tendenza a trattare se stessi con rigidità, durezza e disprezzo.
Emerge dunque un legame prevedibile, tra compassione, gentilezza verso sé ed attaccamento sicuro, e disprezzo e durezza verso sé ed attaccamento insicuro.
Ora veniamo alla nostra personale esperienza: quanti di noi si sono più o meno spesso accorti di rivolgere a se stessi frasi davvero poco gentili, se non addirittura dure, sprezzanti e offensive proprio in quei momenti in cui avevamo invece maggior bisogno di sentirci perdonati, compresi, accolti o abbracciati? Proprio questo atteggiamento punitivo ed offensivo che ci rivolgiamo quando facciamo qualcosa di sbagliato è responsabile di una spirale di sofferenza autoinflitta che può condurre anche a disturbi dell’umore come la depressione. Riempiendo la nostra esperienza interiore di sentimenti di vergogna, inadeguatezza, tristezza che si esacerbano ad ogni frase sprezzante e colpevolizzante che ci rivolgiamo, facciamo esattamente l’opposto di ciò che in realtà ci servirebbe. Compassione, comprensione e affetto.
Il punto è che trattiamo noi stessi come siamo stati trattati… e forse con anche maggior durezza e pretesa di perfezione.
Possiamo allora imparare a vigilare su di noi, facendo attenzione che il nostro disprezzo e la nostra disapprovazione non colpiscano anche questa tendenza alla durezza verso sé, perché in tal caso sarebbe come cercare di sedare l’odio con dell’altro odio. O spegnere il fuoco con la benzina… peggioreremmo di molto le cose.
In realtà dobbiamo sempre tenere a mente che, per quanto dolorosa e disfunzionale sia l’attitudine a “maltrattare” noi stessi, rivolgendoci parole dure e prive di compassione, si tratta di un atteggiamento che origina dal tentativo di proteggerci o difenderci da un’altra temuta sofferenza: quella del fallimento, della disapprovazione, della “non perfezione”, del sentirsi non degni, non all’altezza o non meritevoli…Ma si tratta di un tentativo che non fa che peggiorare la sofferenza buttandoci giù, facendoci sentire soli e non abbastanza e isolandoci dagli altri…
COSA POSSIAMO FARE?
Possiamo imparare a riconoscere tutte le volte in cui il nostro dialogo interno è caratterizzato da frasi dure, giudicanti, sprezzanti o intolleranti verso noi stessi o verso le nostre debolezze, gli errori che inevitabilmente possiamo commettere, e imparare, gradualmente e pazientemente, a trasformare tanta durezza.
Possiamo imparare a sostituire i “sei un incapace - un cretino (o peggio…) - un fallito” ecc ecc. con parole più accoglienti e compassionevoli, come ad esempio: “hai fatto ciò che hai potuto, va bene così”, oppure “è normale commettere degli errori tutti possono sbagliare” o “è un momento difficile per te, è normale che ti senta cosi” o altre ancora, a seconda della circostanza.
Non sarà immediato ma, piano piano, rivolgere al nostro sé spaventato, ferito o solo, frasi che comunichino apertura e accoglienza, amore incondizionato e comprensione, sarà un’esperienza davvero fruttuosa.
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Psicologa,
Dottore di Ricerca in Neuropsicologia
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