IL GIUDICE INTERIORE: ATTACCAMENTO E GENTILEZZA AMOREVOLE

"Miei Cari Estinti", illustrazione di Veronica D'Onofrio
"Miei Cari Estinti", illustrazione di Veronica D'Onofrio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scritto da: Annalisa Barbier

 

 

Negli anni Cinquanta, Gli studi di John Bowlby sull’attaccamento condussero a risultati davvero molto interessanti.

Ad oggi, la teoria dell’attaccamento di Bowlby rappresenta la principale cornice teorica all’interno della quale comprendere il modo in cui si costruiscono e si mantengono le relazioni importanti della nostra vita, a partire dalle prime che sperimentiamo: quelle con le nostre principali figure di riferimento, solitamente i genitori o coloro che si prendono cura di noi.

È sulla base di queste iniziali relazioni di cura che si costruisce il nostro stile di attaccamento, che riassume il modo in cui viviamo noi stessi e gli altri importanti all’interno delle nostre relazioni significative.

Se i bisogni del bambino vengono soddisfatti dalle figure di accudimento, se il piccolo viene coccolato, sostenuto e consolato quando è bisognoso, impaurito o turbato, svilupperà la sensazione di potersi fidare ed affidare, ed imparerà ad avere fiducia nei genitori, a sentirsi amato, amabile e degno di amore. Svilupperà quello che viene definito un ATTACCAMENTO SICURO, caratterizzato da sentimenti di fiducia nel fatto che il mondo è un posto sicuro, che i suoi bisogni verranno soddisfatti e che è meritevole di amore.

Nel caso invece i suoi genitori abbiano avuto, nei suoi confronti, comportamenti imprevedibili e incostanti nel fornire accudimento, o siano stati più o meno freddi e respingenti, il piccolo svilupperà un legame di attaccamento definito ATTACCAMENTO INSICURO (ambivalente o evitante), caratterizzato dalla sensazione di non poter avere fiducia nei genitori affinché possano consolarlo, soddisfare i suoi bisogni, alleviare il suo disagio o la sua paura, sperimentando un’idea del mondo come di un luogo pericoloso e niente affatto sicuro, dei genitori come non affidabili e di se stesso come non amabile, o non meritevole. Questo atteggiamento limiterà la capacità del bambino di esplorare il mondo, di fidarsi e sentirsi  al sicuro, nelle relazioni e nella vita.

Queste prime esperienze di fiducia/sfiducia influenzeranno la costruzione di quelli che Bowlby definisce Modelli Operativi Interni (MOI), ossia il modo in cui consideriamo noi stessi e gli altri all’interno delle relazioni interpersonali (il sé in relazione all’altro) e definiscono a grandi linee un “autoritratto” inconsapevole di chi siamo e di cosa possiamo aspettarci dagli altri e dalle relazioni interpersonali.

Un attaccamento sicuro in questo senso è una benedizione, poiché ci permetterà di vivere con fiducia, senso di sicurezza e dignità le relazioni adulte, sentendoci al sicuro e capaci di una reciprocità equilibrata e serena. Un attaccamento insicuro invece porta a vivere le relazioni interpersonali adulte con un inconsapevole ma costante sottofondo di sfiducia, timore, incertezza e paura che non permettono di costruire relazioni sane e gratificanti, poiché attivano reazioni automatiche e disfunzionali di allontanamento, aggressività, ricerca continua di conferme, che boicottano i rapporti. Creando circoli viziosi che perpetrano le paure da cui originano, e una sofferenza emotiva pervasiva.

 

Allarghiamo ora l’attenzione al concetto di self compassion, per comprendere in che modo la capacità di manifestare questa sana e naturale attitudine umana, sia correlata allo stile di attaccamento. La dottoressa Kristin Neff la definisce come l’insieme di tre componenti: gentilezza amorevole verso se stessi, la capacità di riconoscere la nostra comune condizione umana e la capacità di mantenere la  nostra esperienza all’interno di una  consapevolezza equilibrata.

La self compassion è la capacità di avere cura di se stessi, di essere gentili, accoglienti e amorevoli verso se stessi e soprattutto verso i propri difetti, le umane imperfezioni e verso gli errori ed i fallimenti che inevitabilmente fanno parte della nostra esperienza. 

Ora mettiamo in relazione gli stili di attaccamento, in particolare i MOI, con la capacità di self compassion: la ricerca dimostra che le persone con attaccamento insicuro, e dunque modelli operativi interni caratterizzati da un’immagine di se come non amabile/non buono/non meritevole, mostrano una capacità di self compassion ridotta rispetto ai soggetti con attaccamento sicuro.

In pratica, sembra esistere una correlazione tra stile di attaccamento sicuro e capacità di self compassion e viceversa, tra attaccamento insicuro e tendenza a trattare se stessi con rigidità, durezza e disprezzo. 

Emerge dunque un legame prevedibile, tra compassione, gentilezza verso sé ed attaccamento sicuro,  e disprezzo e durezza verso sé ed attaccamento insicuro.

 

Ora veniamo alla nostra personale esperienza: quanti di noi si sono più o meno spesso accorti di rivolgere a se stessi frasi davvero poco gentili, se non addirittura dure, sprezzanti e offensive proprio in quei momenti in cui avevamo invece maggior bisogno di sentirci perdonati, compresi, accolti o abbracciati? Proprio questo atteggiamento punitivo ed offensivo che ci rivolgiamo quando facciamo qualcosa di sbagliato è responsabile di una spirale di sofferenza autoinflitta che può condurre anche a disturbi dell’umore come la depressione. Riempiendo la nostra esperienza interiore di sentimenti di vergogna, inadeguatezza, tristezza che si esacerbano ad ogni frase sprezzante e colpevolizzante che ci rivolgiamo, facciamo esattamente l’opposto di ciò che in realtà ci servirebbe. Compassione, comprensione e affetto.

Il punto è che trattiamo noi stessi come siamo stati trattati… e forse con anche maggior durezza e pretesa di perfezione.

Possiamo allora imparare a  vigilare su di noi, facendo attenzione che il nostro disprezzo e la nostra disapprovazione non colpiscano anche questa tendenza alla durezza verso sé, perché in tal caso sarebbe come cercare di sedare l’odio con dell’altro odio. O spegnere il fuoco con la benzina… peggioreremmo di molto le cose.

In realtà dobbiamo sempre tenere a mente che, per quanto dolorosa e disfunzionale sia l’attitudine a “maltrattare” noi stessi,  rivolgendoci parole dure e prive di compassione, si tratta di un atteggiamento che origina dal tentativo di proteggerci o difenderci da un’altra temuta sofferenza: quella del fallimento, della disapprovazione, della “non perfezione”, del sentirsi non degni, non all’altezza o non meritevoli…Ma si tratta di un tentativo che non fa che peggiorare la sofferenza buttandoci giù, facendoci sentire soli e non abbastanza e isolandoci dagli altri…

 

COSA POSSIAMO FARE?

Possiamo imparare a riconoscere tutte le volte in cui il nostro dialogo interno è caratterizzato da frasi dure, giudicanti, sprezzanti o intolleranti verso noi stessi o verso le nostre debolezze, gli errori che inevitabilmente possiamo commettere,  e imparare, gradualmente e pazientemente, a trasformare tanta durezza.

Possiamo imparare a sostituire i “sei un incapace - un cretino (o peggio…) - un fallito” ecc ecc. con parole più accoglienti e compassionevoli, come ad esempio: “hai fatto ciò che hai potuto, va bene così”, oppure “è normale commettere degli errori tutti possono sbagliare” o “è un momento difficile per te, è normale che ti senta cosi” o altre ancora, a seconda della circostanza. 

Non sarà immediato ma, piano piano, rivolgere al nostro sé spaventato, ferito o solo, frasi che comunichino apertura e accoglienza, amore incondizionato e comprensione, sarà un’esperienza davvero fruttuosa.

 

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